Adesso basta.

Una sera di diversi anni fa, ero a casa da sola, stavo cenando.
Non ricordo cosa mangiavo, ma ricordo che fuori pioveva a dirotto. Andava avanti così da giorni. Il fiume vicino casa era ingrossato, le strade erano allagate, e il mio umore era pessimo perché il maltempo non mi permetteva di andare a correre.
Io vivo al primo piano di un palazzo costruito quasi un secolo fa, in una stradina tranquilla di una cittadina borghese che affaccia sul mare. Il mio è un quartiere sicuro, e i miei vicini sono persone rispettabili, di cui mi fido. Se il citofono suona, posso permettermi di aprire senza chiedere chi è. Se a suonare è il campanello, posso aprire senza guardare nello spioncino. A volte lo faccio, soprattutto se riconosco il rumore delle chiavi dell'architetto, o se sento il passo della vicina che scende dal terzo piano per venire a chiedermi qualcosa.
Stradina tranquilla, quartiere sicuro, vicini di cui mi fido.
Quella sera ero a casa da sola, dicevo. Stavo cenando.
Il campanello suonò e io andai ad aprire senza guardare nello spioncino. 'Sarà la vicina' pensai. Invece no.
A due passi dal tappetino, con addosso un giubbotto blu che gli arrivava alla vita e un paio di jeans scuri, c'era un ragazzo. Nero di pelle, e completamente bagnato. Il giubbotto era zuppo. Il viso, i capelli, le scarpe, le mani: c'era acqua ovunque. Diluviava, ve l'ho detto.
"Hai coperta?" chiese in un pessimo italiano.
Io rimasi a guardarlo per qualche secondo. Ero sorpresa, e all'improvviso spaventata. Non l'avevo mai visto prima. Non era uno di quelli che aiutavano i clienti a caricare la spesa al supermercato, in cambio di qualche moneta. Non era uno di quelli che sedeva sui gradini della farmacia.
Il portone del palazzo era spalancato: chi gli aveva aperto? Perché aveva bussato proprio a casa mia? Che voleva da me?
"Come, scusa?" chiesi io.
"Hai coperta? Per pioggia. Hai coperta?"
"No."
"Per favore. Per pioggia. Coperta."
"No. No. Non ho coperte. Non ho coperte."
Gli chiusi la porta in faccia e tornai in cucina. Nel breve tragitto, provai un profondo senso di vergogna. Una sensazione mai provata prima. 'Hai un armadio pieno di coperte' dissi a me stessa. 'Quel ragazzo era fradicio. Che cazzo hai fatto?'
Così corsi alla porta, la riaprii, ma lui non c'era più. Presi l'ombrello, uscii in strada, ma il ragazzo non era nemmeno lì. Svanito. Sotto la pioggia. Dopo che io gli avevo rifiutato una coperta.
L'ho cercato a lungo, quel ragazzo, e non per modo di dire: andai a cercarlo dove si radunano i senzatetto della città, andai a parlare col prete della chiesa del quartiere, chiesi ai vicini. Niente. Scomparso.
Quando raccontai l'episodio, parlando anche della vergogna e del senso di colpa che provavo, la reazione della gente fu più o meno questa: "Non puoi sentirti in colpa, chiunque avrebbe reagito con paura. Se ne sentono tante alla tv, di gente che entra in casa con una scusa e poi ti ruba tutto, o ti ammazza: hai fatto bene a non dargli niente."
Ma io sapevo (e so) che quel ragazzo non era un ladro o un assassino. Io sapevo (e so) perché quella sera mi sono spaventata, gli ho detto No e gli ho sbattuto la porta in faccia. L'ho fatto perché era nero. L'ho fatto perché non appena l'ho visto, senza neanche rendermene conto, ho collegato il colore della sua pelle alla possibilità di pericolo. L'ho fatto perché vivevo (e vivo) in un contesto culturale, sociale, politico e umano in cui la pelle scura è vista con diffidenza in ogni ambito, e io quella sera ho agito sulla base di una percezione errata, malata, vergognosa. Ho visto un ragazzo nero, e ho avuto paura che potesse farmi del male. Perché, poi? Mi aveva forse minacciata? Mi aveva forse aggredita? No. Mi aveva chiesto una coperta. In un pessimo italiano. Ripetendosi quando gliel'ho chiesto. Dicendo 'per favore'.
Anche pensare ai ragazzi che incontravo davanti al supermercato o alla farmacia fu un errore causato dal pregiudizio. Ho visto un ragazzo nero nel mio palazzo pieno di gente rispettabile, in una stradina tranquilla di una cittadina borghese che affaccia sul mare, e ho pensato: povero, mendicante, pericolo.

Quella sera, qualcosa è cambiato in me. Oltre la vergogna, oltre il senso di colpa, oltre la ricerca ossessiva di quel ragazzo (che ancora va avanti), da quella sera ho iniziato a fare i conti con il mio privilegio, con la mia ipocrisia, con la mia vulnerabilità rispetto ad un certo tipo di messaggi, idee, propaganda. In breve: con la mia ignoranza.
Non lo dico per giustificarmi, mettiamolo subito in chiaro. Non esistono giustificazioni per il mio comportamento di quella sera, e tutto ciò che di buono ho fatto da allora non cancella la porta sbattuta in faccia al ragazzo dal giubbotto blu.
Il cambiamento iniziato in quell'occasione ha a che fare col mio bisogno di essere una persona migliore, più consapevole e meno incline a farsi influenzare dall'educazione che mi è stata data, dai media, dai tweet, dalle parole di chi è a caccia di potere. Così ho iniziato a studiare, ad ascoltare, a cercare di colmare le mie lacune e di vaccinarmi contro quella malattia orribile che si chiama razzismo. Nel farlo ho scoperto quanti errori ho commesso senza neanche rendermene conto, io che mi sono sempre considerata priva di pregiudizi, e quanto problematica sia la situazione, dalle mie parti e in Italia.
Dove vivo, troppe cose sono normalizzate: il razzismo, il sessismo, il machismo.
Ogni tentativo di aprire una conversazione affinché si possa quantomeno parlare di certe problematiche è percepito da tanti come una perdita di tempo. Ogni novità, ogni progresso, ogni miglioramento è avvertito come una minaccia.
"Si è sempre fatto così" e "Non puoi cambiare la testa della gente" sono due frasi che hanno fatto da colonna sonora alla mia vita per molto tempo. Ma se in questi anni le mie lacune sono state in parte colmate, se i miei pregiudizi sono spariti, se il mio livello di consapevolezza rispetto a tante tematiche è cresciuto, la situazione generale (dalle mie parti come nel resto d'Italia) è andata peggiorando. Non devo dirvelo, credo. Sapete tutti quanto e come le cose siano difficili in questo momento.

Da circa un anno mi dico che scrivere non basta. Sì, col mio lavoro ho la fortuna di poter raccontare a migliaia di persone la realtà che vivo e quella che vorrei vivere, e ciò non è poco se il tuo obiettivo è anche quello di contribuire a rendere il mondo un posto migliore, ma si può sempre fare di più. Si deve fare di più affinché un'altra persona colmi le proprie lacune, affinché il progresso non sia più percepito come una minaccia, affinché la situazione nel nostro Paese migliori.
Io sono orgogliosa di essere nata e di vivere in Campania. Sono orgogliosa di essere una donna. Sono orgogliosa di essere una cittadina italiana ed europea. Credo in una società giusta, e so che non esisterà mai giustizia sociale se noi donne non saremo totalmente libere da quel cancro chiamato società patriarcale. Credo nell'istruzione, perché solo attraverso la conoscenza e la cultura è possibile combattere la povertà, le disuguaglianze, l'aumento della criminalità. Credo al cambiamento climatico, e sono seriamente terrorizzata dal fatto che il presente governo consideri una minaccia le migrazioni, e non il riscaldamento globale.
Ma scrivere non basta, così ho deciso di adoperarmi personalmente affinché qualcosa cambi.
Io amo il posto in cui vivo, ma so che tante cose possono essere migliorate: la biblioteca comunale è piccola, e abbandonata a sé stessa. Il parco vicino casa è intitolato ad una persona le cui 'gesta' furono imbarazzanti e vergognose per la città, il Paese e l'intera comunità scientifica. Il numero dei senzatetto non diminuisce, anzi.
Non possiedo la bacchetta magica, e non so se riuscirò a raggiungere i miei obiettivi. Ma devo provarci, per me stessa e per gli altri. Devo cercare di proteggere e difendere chi ha meno di me. Devo lottare per le mie sorelle. Devo resistere al decadimento materiale e umano in cui l'Italia sta scivolando a causa (anche) del razzismo istituzionalizzato.

È anche per questi motivi che ho deciso di iscrivermi ad un partito politico. Oltre ad agire per migliorare la mia piccola realtà, penso sia doveroso A. supportare chi lavora affinché tante piccole e grandi realtà migliorino, e B. partecipare attivamente affinché la luce non venga spenta sulle questioni in cui credo fortemente, come la parità di genere, la difesa dell'ambiente, la centralità dell'istruzione, la tutela dei lavoratori.
Quel partito è Possibile. L'unico, per quanto mi riguarda, i cui valori e le cui idee mi spronano a cercare di essere una donna migliore, una cittadina migliore.

Ne parlo pubblicamente per due ragioni: 1. a qualcuno la mia esperienza potrebbe essere utile; 2. per resistere a questo governo, a questo clima politico, bisogna anche esporsi. 
Non so ancora in che modo potrò essere utile a Possibile. Non so, ripeto, in che modo potrò essere utile alla mia città. Per me si tratta di una prima volta. Ma continuare a guardare, mentre tutto va (metaforicamente, almeno per ora) a fuoco è impossibile. L'ho fatto per tanto, troppo tempo. Adesso basta.