La famiglia di Carter

Sette anni fa, oggi, il mio primo libro vedeva la luce.
Perfetto (La trilogia di Lilac #1) è entrato nelle case e nel cuore di migliaia di persone, in Italia e all'estero. Si tratta della mia prima opera, del mio primo figlio di carta, e come tale è per me molto speciale.
Perfetto rappresenta un traguardo importante per una ragazza che ha scommesso e investito su se stessa. Rappresenta, inoltre, l'inizio di un viaggio in un mondo che mi ha permesso di crescere, come autrice e come donna. Un mondo che è stato apprezzato, nonostante le sbavature e le imperfezioni che solo una prima opera può avere.

Per celebrare questo anniversario, ho deciso di condividere con voi un inedito dal titolo La famiglia di Carter.
Grazie per questi sette anni. Grazie per i commenti positivi e anche per quelli negativi. Grazie per il passaparola e per il supporto incondizionato durante la scrittura e le revisioni. Grazie per aver pazientato tra un libro e l'altro, e per continuare a farlo.

Buona lettura.

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La famiglia di Carter


Dovrei farlo continuare a dormire.
Dovrei alzarmi e iniziare a prepararmi.
Dovrei essere rapida e furtiva come ogni giorno, e tornare in camera da letto prima di andare via, per dargli un bacio e prendermi il suo mugolio assonnato, il suo “Il tuo profumo…”, il suo “Buon lavoro, tesoro. Ti amo.”
Quel ‘Ti amo’ è tutto ciò che mi occorre per andare avanti fino a sera. I suoi occhi restano chiusi fino a quando non inizia a dirlo. Quando li apre, ci troviamo subito, e io so che lui lo sa: sa che ne ho bisogno, sa che quelle cinque lettere sono la mia energia.
“Ti amo anch’io” dico ogni volta in risposta. “A stasera.”
Dovrei seguire la routine del mattino, quella che mi porta a lasciare il letto quando fuori è ancora buio per andare in ufficio, quella che mi rende una madre assente, che abbraccia i suoi figli quando dormono, stretti alle loro coperte, prima di rivederli dodici ore dopo, quando indossano lo stesso pigiama con cui si preparano per tornare a letto.
Dovrei.
Ma oggi non mi va.
Oggi non voglio lasciare il letto, non voglio prepararmi per uscire di casa.
Oggi voglio restare al fianco dell’uomo il cui viso è piantato nel cuscino sistemato al centro del letto, proprio accanto al mio.
Oggi voglio continuare a bearmi dei suoi lineamenti rilassati, perfetti.
Oggi voglio ascoltare il suo respiro tranquillo, voglio assorbire il suo calore, voglio sniffare il suo odore come fosse una droga potente.
In un certo senso lo è. Lo è da quando ci siamo visti per la prima volta.
Sono passati quasi dieci anni, e ancora mi capita di vergognarmi della reazione che ebbi quel giorno quando lo vidi. Qualcosa di istintivo, primordiale, animalesco si accese in me. Fu come un’esplosione di desiderio inespresso, dimenticato. Fu come tornare a vedere dopo secoli di buio.
Credo di essermi innamorata di lui in quel momento, quando i nostri occhi si sono incrociati per la prima volta.
A lui piace dire che è sempre stato innamorato di me, anche prima di sapere che esistevo: banale e sdolcinato, forse… ma Dio, quanto mi piace l’effetto che certe banalità sdolcinate hanno su di me quando è lui a pronunciarle.
Porto una mano sul suo viso, per accarezzarlo. Dal sopracciglio, scendo sulla guancia. Poi raggiungo il mento, e infine risalgo sulle labbra.
La sua pelle nera è sempre morbida e profumata. Accanto alla mia, bianca come il latte, mi ha sempre provocato una sensazione di euforia eccitante. Un mese dopo il nostro primo incontro, quando eravamo insieme, da soli, gli chiesi se quell’euforia che provavo fosse razzista.
“Non voglio offenderti,” ricordo che dissi. La voce mi tremava.
“Non mi offendi,” rispose lui. E poi mi baciò.
Per la prima volta.
Sorrido mentre lo ricordo. Sorrido mentre mi avvicino e gli do un bacio, annullando mentalmente la sveglia, la routine, il lavoro, gli impegni, le responsabilità.
Lui è sorpreso – a dirmelo è il modo in cui il suo corpo diventa teso per un breve istante – ma si lascia andare subito quando capisce cosa sta accadendo. Mugola sulle mie labbra, mentre schiude le sue per approfondire il bacio.
Le sue braccia forti mi avvolgono veloci e calde, in un abbraccio che ha il potere di cancellare ogni lista di appuntamenti, ogni dovere, ogni ora di lavoro.
Schiudo le cosce per portarne una sui suoi fianchi, e lui sorride immediatamente, perché conosce il mio corpo, conosce le mie voglie. Sa che tra due secondi muoverò i fianchi verso i suoi.
Sa che quando porto una coscia sui suoi fianchi, un bacio non è tutto ciò che voglio.
“Non devi andare in ufficio?” chiede con la voce di chi non è affatto infastidito dal risveglio appena ricevuto.
“Devo, sì. Voglio? No.”
Le sue dita scivolano dalla mia vita alle braccia. Risalgono fino a trovare i miei capelli lunghi. I polpastrelli massaggiano la nuca, mentre le sue labbra si muovono per esplorare il mio collo.
Mimo i suoi movimenti, portando una mano sui suoi capelli. Adoro i suoi ricci afro. Adoro che li tenga lunghi.
Adoro ogni cosa di lui.
Ci baciamo per qualche istante, strusciando i nostri corpi semi vestiti l’uno sull’altro, sussurrando il nostro amore e la nostra eccitazione.
“Abbiamo trenta minuti,” mi dice ad un tratto, mentre passa la lingua sui miei capezzoli.
“Trenta?” chiedo, ridendo della serietà che c’è nella sua voce. “Perché?”
“Perché tra trentuno minuti i bambini saranno qui a prendere il posto che la loro mamma lascia di solito.”
È vero. Non ci avevo pensato. Lo fanno sempre, quando vado a lavoro.
Muovo una mano verso la parete, per attivare la sveglia. Sul muro, proprio accanto alla porta, appare l’orario proiettato dal dispositivo che si trova sul mio comodino.
“Trenta minuti da adesso?”
E lui annuisce, con un sorriso diabolico. “Dovremo farceli bastare.”
In genere, trenta minuti non sono abbastanza neanche per spogliarci. Ci piace essere lenti. Ci piace costruire una lunga scala di preliminari e usarla per arrampicarci fino a raggiungere il piacere. Spesso, quella scala vale più del piacere stesso. È lì che diventiamo una cosa sola, è su quei grandini lenti e passionali che ci raccontiamo il nostro amore.
La penetrazione è eccitante. Il resto… Il resto molto di più. È sempre stato così, fin dalla prima volta.
Carter conosce il mio corpo meglio di me. È una cosa che mi rende felice e, al tempo stesso, terrorizzata. A volte mi sembra di dipendere da lui. Non mentalmente, non fisicamente… spiritualmente.
È questo l’amore? È così anche quando hai passato i quarant’anni e non sei più una ragazzina? Sì. A quanto pare sì.
Trenta minuti sono tutto ciò che gli occorre per portarmi due volte in cima alla scala fatta di bocche, lingue, mani, gemiti, mugolii e suppliche. La nostra unione esplode quando sono su di lui, con le sue mani sui fianchi, a dondolare in quel modo che a lui piace tanto.
È tutto ciò che voglio.
È tutto ciò che ho sempre voluto.
È la mia gioia.
È la mia salvezza.
“Ti amo, mio re,” sussurro sul suo petto, quando mi lascio andare su di lui.
“Ti amo, mia regina,” è la sua risposta.

***

I passi, ovattati ma veloci, riecheggiano nel corridoio qualche minuto più tardi.
La porta si apre lentamente, e il suono dei quattro piedini sul parquet mi riempie il cuore di gioia: di mattina, questo è un suono raro per me.
“Papà?”
“Papà, sei sveglio?”
Cartica è la più grande e la più veloce. Tuttavia non si accorge subito di me. Dà per scontato che il mio lato del letto sia vuoto, e per questo riesco a godermi tutta la sua sorpresa quando si arrampica sul piumone, seguita rapidamente da suo fratello.
“Mamma!”
“Mamma!” ripete Fedo. “Sei ancora qui!”
“Non vi dispiace, vero?” Sollevo il piumone e faccio spazio a entrambi.
I nostri figli si avvicinano con movimenti provati e riprovati. Cartica resta al mio fianco, mentre Fedo si muove verso il centro del letto. Carter l’afferra a sé, prima di dargli un bacio sulla fronte. Il colore della pelle, i ricci lunghi, il sorriso: si somigliano così tanto.
Cartica è una mia miniatura, invece: minuta e agguerrita, gentile e decisa.
Sono la parte migliore di me. Sono, insieme al loro papà, la mia gioia più grande.
“Oggi non vai a lavoro?” chiede Cartica. “Resti con noi?”
“Sì, mamma. Resta con noi”” le fa eco il più piccolo di casa.
“Sì, mamma,” ripete Carter. Mi sorride, allungando un braccio sulla testa di Fedo per accarezzarmi i capelli. “Resta con noi.”
Vorrei.
Dovrei.
Potrei, senza ombra di dubbio.
Non mi assento mai, non sono mai in ritardo in ufficio. Lo faccio sia per dare il buon esempio, sia perché so che tante persone dipendono da me.
Tuttavia, se oggi chiamassi per dire “Mi prendo la giornata per motivi personali, ci vediamo domani”, a nessuno verrebbe in mente di riprendermi, o di dirmi “No, non puoi”.
Quindi sì, potrei restare a casa con la mia famiglia.
Ma oltre il volere, il dovere e il potere, c’è un’altra cosa: il senso di responsabilità. È quello a condurmi fuori di casa ogni giorno, è quello a farmi seguire una routine che solo di rado può prevedere eccezioni.
Quel senso di responsabilità mi ha condotta dove sono finora. È l’ingrediente più importante della mia pozione, è ciò che mi distingue da migliaia di altre donne, mogli e madri là fuori.
“Domenica resterò tutto il giorno con voi,” dico a Carter e ai bambini. “Ma oggi non posso. Oggi devo andare a lavoro.”
Lui annuisce con un cenno del capo carico di comprensione, mentre Fedo unisce le labbra in un mezzo broncio. Cartica, invece, è l’unica in grado di colpirmi con le sue parole, poche ma letali.
“Il tuo lavoro è più importante di noi. Ormai l’ho capito.”
In quelle due frasi non c’è solo la realizzazione, ma anche la rassegnazione. Vuol dire che, nonostante la sua tenera età, ha più volte riflettuto sulle mie assenze, sul mio rigore, su quel senso di responsabilità che pesa più dell’amore che nutro per la mia famiglia. Ha riflettuto, la mia Cartica, e il frutto dei suoi pensieri è in quelle due frasi.
“Nulla è più importante di voi,” dico con calma, appoggiando un dito sul suo mento per costringerla a guardarmi negli occhi. “Nulla.”
“E allora perché non resti? Oppure… Perché non mi fai venire in ufficio con te?”
“Oh! In ufficio con me?” chiedo con una risata forzata.
Mantengo lo sguardo sulla bambina, ma sento che Carter mi guarda con apprensione.
“Sì,” dice Cartica, annuendo. “Come quella volta che siamo andati di domenica, ricordi? Ma non c’era nessuno… perché era domenica.”
“Va bene,” dico senza attendere neanche un momento. Senza riflettere. “Che ne dici di martedì prossimo? Avrò un mucchio di riunioni, e potrai vedere l’ufficio nel pieno della sua attività. Ti sembra una buona idea?”
Il viso della mia primogenita si illumina. “Sul serio?”
Incrocio due dita e le porto sul cuore. “Promessa solenne.”
Cartica sorride e si tuffa tra le mie braccia. “Grazie, mamma! Non vedo l’ora!”
“Posso venire anch’io?” domanda Fedo. “Voglio vedere il tuo ufficio, mamma.”
“Certo che puoi. Vi mostrerò l’ufficio, le sale in cui facciamo le riunioni. Sarà una gita speciale.”
I bambini esplodono in una serie di frasi eccitate. La gita in ufficio deve sembrare, ai loro occhi innocenti, come un’esperienza sfavillante. L’equivalente dei vecchi viaggi a Disneyland.
“It’s going to be fine at the office, right?” Le parole di Carter, in una lingua che i bambini non capiscono ancora del tutto, sono un sussurro diretto solo a me.
“Of course,” dico a voce bassa.
“And they will be safe all the time.” Una pausa. Quando riprende, nella sua voce c’è una nota ansiosa. “Right, mia regina?”
Trovo la sua mano nel groviglio di bambini e coperte che ci separa, e la porto alle labbra, per baciarne il palmo.
“They will always be safe. Always. And you too, mio re. My family will always be safe.”
“Ti amo,” dice lui, con un sorriso sollevato.
“Ti amo anch’io. Per sempre.”
In quel momento, dal mio comodino il tablet emette un suono. Lo emette ogni mattina, è l’avviso di un messaggio in arrivo.
Tra 10 minuti al portone, leggo in silenzio.
Facciamo 30, scrivo rapida.
La risposta è istantanea: Tra 30 minuti al portone.
“E se andassimo a fare colazione?” chiedo dopo aver riposto il tablet sul comodino. “Che ne dite di crêpes alla frutta?”
Fedo è il primo a scattare in piedi, facendosi spazio tra le gambe di suo padre per scendere dal letto. “Crêpes alla frutta, sì! Con la panna, mamma?”
“Panna panna?” interviene Cartica. “Frutta frutta?”
“Certo che sì,” rispondo, scompigliandole i capelli. “Andate di là,” dico ad entrambi. “Iniziate ad apparecchiare. Vostro padre ed io saremo subito con voi.”
Quando restiamo soli, Carter trova la mia mano e mi attira a sé per stringermi fra le braccia. Sulla sua spalla lascio andare un respiro pesante, carico di mille sentimenti a cui non credo di voler dare un nome.
“Un giorno sarà diverso,” dico ad un tratto. Per ricordarlo non solo a lui, ma a me stessa. “Te lo prometto.”
“Lo so,” risponde lui. “Non devi prometterlo. Lo so già. Ti credo.”
Avvicino la guancia alla sua, e poi le punte dei nostri nasi, per strofinarle. Ci baciamo così per un po’. Come due giovani innamorati. Come due persone che hanno tutto il tempo del mondo.
Poi, come una famiglia qualunque, andiamo a fare colazione con le crêpes alla frutta.
Mentre i bambini si trattengono al tavolo più di noi per mangiare, Carter ed io ci prepariamo. Di solito, io sono già fuori casa quando lui inizia la sua routine. Oggi è strano (e non per questo meno bello) guardarlo alle prese con i gesti con cui inizia la sua giornata. Il modo in cui si strofina, sotto la doccia. Il modo in cui fa la barba. Il modo in cui crea gli abiti che indosserà.
“Bianco sporco o rosa Schiaparelli?” gli chiedo ad un tratto, indicando i due vestiti appesi alla mia cabina armadio.
“Rosa,” dice immediatamente. “Tanto per cominciare, ti sta da Dio, e poi è particolarmente aziendalista, non trovi?”
Rido mentre afferro il vestito rosa shocking. Lo indosso veloce, abbinando scarpe e accessori.
Ventinove minuti dopo il primo messaggio, il mio tablet ne riceve un altro.
Tra un minuto al portone.
“Devo andare,” dico a Carter. “A stasera?”
Il suo sorriso mi illumina il cuore. “A stasera.”
In salone, bacio i miei bambini. Le loro braccia, strette attorno alle mie spalle, mi danno l’energia di cui ho bisogno ogni giorno della mia vita.
“A più tardi, amori miei,” dico a tutti. “Fate i bravi, ok?”
“A più tardi, mamma.”
“A più tardi, maman. Ti voglio bene.”
Apro la porta di casa, e ad accogliermi c’è l’aria tiepida di un mattino di primavera. I cespugli fioriti segnano i lati del vialetto in mattoni di tufo, delimitando il giardino disseminato di aiuole e alberi. Sul prato verde ci sono i giocattoli dei bambini. I due robo-pet iniziano a scodinzolare quando mi vedono.
Non smetteranno mai di farmi sorridere.
Alla fine del vialetto, il cancello pedonale si apre prima che io possa ordinargli di farlo. Mi volto verso la villa, e Carter è alla finestra, con un braccio alzato, come a dire “L’ho aperto io”.
Lo saluto con un bacio volante, prima di uscire e chiudere il cancello dietro di me.
“Attiva la sicurezza,” dico davanti a quello che un tempo si chiamava citofono.
“Sicurezza attivata,” risponde la voce femminile.
Un clic metallico, e la mia casa è al sicuro. Il muro di cinta della proprietà non è molto alto, ma la videosorveglianza è attiva ad ogni metro, sull’intero perimetro. Tra gli alberi, ce ne sono diversi artificiali, al cui interno si trovano sottili robot armati, pronti ad intervenire qualora qualcuno provasse a penetrare la recinzione muraria. Diversi droni perlustrano la zona. Sono silenziosi e praticamente invisibili; Carter ed io non vogliamo che i bambini si spaventino, o si sentano in trappola.
La mia dimora è l’epicentro di un’area che ha un diametro di svariati chilometri; tale area è invisibile a ogni sistema di radiorilevamento, anche a quelli più sofisticati. Per il mondo, questa è una zona inaccessibile in un paese chiuso.
In realtà, questo è il centro del mio cuore.
La quadriposto mi attende a pochi passi dal cancello. Alle mie guardie piace chiamarlo ‘portone’, e a me non dispiace.
Il rosa delle fiamme impresse sugli sportelli si sposa alla perfezione con lo Schiaparelli del mio abito. Mio marito aveva ragione.
La guardia scende dal lato della guida e apre lo sportello posteriore. In mano ha il solito sacchetto bianco.
“Buongiorno,” dice quando mi avvicino.
“Buongiorno a te, Alrisha.”
Prendo il sacchetto che mi porge e salgo a bordo.
Alrisha, alta e vestita di nero, chiude lo sportello e torna alla guida.
“Martedì prossimo i miei figli verranno a trovarmi a lavoro,” le dico mentre parte. “Posso affidare a te la preparazione di un Truman Show?”
Alla giovane guardia non sembra vero.
“Sarebbe un onore,” dice, guardandomi attraverso lo specchietto retrovisore.
“Grazie, Alrisha.”
“Il signor Earl accompagnerà i bambini?”
“Sì. Carter si unirà a noi.”
Lei annuisce.
Sollevo lo specchio posizionato davanti al mio sedile, e dal sacchetto tiro fuori la parrucca bionda. La indosso con un gesto che ripeto ogni giorno, e nello specchio sistemo i ciuffi, l’attaccatura e le punte.
Faccio scivolare il sacchetto sul sedile anteriore, accanto alla guardia, che se ne accorge, mi guarda attraverso lo specchietto retrovisore e annuisce di nuovo, stavolta con un sorriso.
“Presidentessa,” ripete, e stavolta nella sua voce c’è un senso di riverenza che prima non c’era.
A volte penso che senza il caschetto biondo non sarei mai diventata quello che sono.
Mi guardo di nuovo nello specchio davanti al mio sedile, controllo che gli orecchini e il trucco sia impeccabile. Poi tiro fuori dalla borsa il mio tablet e comincio a rispondere ai messaggi che si sono già accumulati.
La mia giornata lavorativa può iniziare.
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La famiglia di Carter vedrà la luce nel 2021.
Ci lavoro da anni.
E no, non siete pronti.

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