Coral e Mister: l'extra completo
La Pillola di San Valentino dedicata a Coral e Mister ha ricevuto più commenti delle altre. Come promesso, eccovi la versione completa di quella drabble. Oltre ad illustrare un momento di cui si parla sia in Perfetto che in Segreto, questo extra contiene anche qualche spunto per avvenimenti di cui leggerete in Infinito.
Buona lettura!
Coral e Mister
Buona lettura!
Coral e Mister
“Angela, mi passi il sapone? Qui c’è una macchia immortale.”
Jonathan allunga il braccio verso la ragazza, che gli porge
il flacone.
“Lo so, Coral: avrei dovuto pretrattare. Non guardarmi così.”
“Così come?” domando, sforzandomi di non ridere. Immergo i
miei pantaloni nel fiume per risciacquarli. La schiuma bianca scivola veloce
verso il mare. “Come ti sto guardando?”
“Come la Regina del Bucato,” risponde il riccioluto.
“La Regina del Bucato?” interviene Angela. “Sono offesa, J.”
Strizza le magliette di Eloise e dalla tasca dei pantaloncini tira fuori uno
spazzolino. “Usa questo,” gli dice. “Passalo sulla macchia mentre tieni i jeans
a mollo. E’ solo terra, andrà via in un attimo. In caso contrario li metteremo
nel pentolone. Regina del Bucato,” dice scuotendo la testa verso di me. “Lui è
il Re dello Sporco.”
Strizzo i pantaloni ridendo così tanto che non sento
immediatamente la voce di Anna arrivare dal tetto della casa rossa.
“Michael sta tornando,” grida. “E non è solo!”
Lascio andare i pantaloni nel fiume come se fossero di
fuoco.
“Che cosa?” risponde Terry.
“Ci sono altre due persone con lui. Uno mi sembra un
bambino. Hanno appena oltrepassato il bivio.”
“Di che colore è la bandiera?” chiedo.
Fa che sia bianca. Fa che sia bianca. Fa che sia bianca.
Anna punta il binocolo verso la strada e dopo un attimo
grida: “Michael ne ha esposte due, Coral. Una è bianca, l’altra è verde.”
“Verde vuol dire che c’è un ferito,” dice Terry.
Tutto accade velocemente.
Jonathan e Angela lasciano i vestiti sull’argine del Biago e
corrono a prendere le loro armi.
Terry afferra Eloise e la trascina in casa, mentre Anna
scende dal tetto.
Adam e Bibi si allontanano dalle arnie.
“Quanti?” chiede lei, imbracciando il suo fucile.
“Due. Feriti,” dico, camminando velocemente verso la mia villetta.
“Michael ha la bandiera bianca.”
Bianco è il colore usato per dire a chi è di guardia sul
tetto che i visitatori non hanno usato le armi, ma ciò non vuol dire che, una
volta al villaggio, le cose non possano cambiare.
L’auto imbocca il ponte quando Terry esce di casa con la
pistola fra le mani.
Michael frena sull’erba, a pochi passi dal garage.
“Sono disarmati,” è la prima cosa che dice quando scende. “Giù
le armi. Sono disarmati.”
Il bambino è sui sedili posteriori. L’altro è un uomo
adulto, dalla pelle nera. Il suo volto è distorto da una smorfia di dolore.
“Un solo ferito?” chiedo a Michael, che annuisce subito.
“Aiutatemi,” dico, appoggiando il coltello su una sedia e
andando accanto al lato del passeggero. “Che cosa è successo?”
“Quando mi hanno visto hanno cercato di scappare, pensavano
volessi aggredirli,” risponde Michael, facendo il giro dell’auto per aprire lo
sportello.
La gamba dell’uomo è rigida. I pantaloni sono sporchi di
sangue.
“E’ inciampato sul marciapiede del lungomare. E’ caduto su
un pezzo di vetro.”
Mi scosto per far avvicinare Adam, che si prepara a sollevare
l’uomo.
E’ così debole che non riesce a tenere neppure gli occhi
aperti.
“Portatelo da me,” dico ad Adam e a Bibi.
L’uomo cerca di dire qualcosa. Afferra il braccio della
ragazza per farla fermare, e si volta verso di noi, lentamente. “Elia.”
Il suo è un sussurro, ma evidentemente il bambino riesce a
coglierlo, perché salta giù dall’auto non appena lo sente. Indossa solo una
maglietta, lunga fino alle ginocchia e sporca in corrispondenza del collo e dei
bordi. E’ scalzo, e i piedi sono neri come la notte. Fra le mani ha un pallone,
quello di Michael.
“Lui è ferito?” chiedo a Michael.
“No,” risponde, senza smettere di guardarlo. “Non parla,” aggiunge
sottovoce. “Non credo sia muto, ma non parla. Ha reagito a ciò che gli dicevo
solo quando gli ho mostrato il pallone. Ho provato a lanciarglielo con le mani,
ed è stato allora che l’altro ha pensato che volessi attaccarli.”
L’uomo di colore appoggia una mano sulla spalla del bambino,
e gli dice qualcosa. Una domanda, forse, perché Elia annuisce e fa un passo
indietro.
Mi guardo attorno, per individuare chi potrà occuparsi del
piccolo. Terry è sotto al gazebo, le mani ferme sulle spalle di Eloise, che
osserva la scena con attenzione.
“Angela.”
La ragazza si avvicina subito.
“Prendi il bambino,” dico. “Portalo da me, cerca di pulirgli
i piedi e di dargli vestiti puliti, d’accordo?”
Lei annuisce e s’incammina verso gli altri.
“Cos’hanno con loro?” chiedo a Michael, seguendo il gruppo
in casa. “Erano davvero disarmati?”
“Sì. Hanno due zaini con bottiglie d’acqua vuote.
Camminavano insieme all’inizio del lungomare, ma erano come smarriti, Coral. L’uomo
barcollava, ed è per questo che è caduto quando ha iniziato a correre.”
“Erano a piedi? Nessun veicolo?”
Lui scuote la testa.
“Dove, Coral?” chiede Adam quando siamo nel salone.
“Sopra. Nella seconda camera da letto. Lui dovrà distendersi.”
“Come minimo,” dice Bibi, senza fiato. “Ha appena perso i
sensi.”
Jonathan prende il suo posto e aiuta Adam a portare l’uomo
al primo piano. Il bambino e Angela gli sono dietro. Le sue piccole orme
lasciano disegni fatti di terra sui gradini.
“Dobbiamo dargli vestiti puliti,” dico a me stessa. “E’
nudo, sotto quella maglietta.”
“Erano anni che non vedevo gente ridotta in questo stato,”
mormora Michael. “Quanto pensi avrebbero retto se non fossero arrivati qui?”
“Vuoi convincerli a restare,” dico, leggendo il proposito
nei suoi occhi.
Michael si passa una mano fra i capelli. “Non lo so. Non
sappiamo se sono soli, o se fanno parte di un gruppo. Per ora cerchiamo di
curarli, d’accordo?”
“D’accordo. Io gli vado dietro, tu prendi due bottiglie
d’acqua e il miele.”
Jonathan e Adam sistemano l’uomo al centro del letto.
Il bambino è fermo in un angolo, con Angela al suo fianco.
“Bibi, ho bisogno di acqua calda, di un paio di forbici e del
composto disinfettante. Vai tu?”
“Sì, Coral,” risponde la ragazza.
“Adam, apri completamente le persiane e sposta la tenda.
Voglio più luce.”
Mi avvicino al bambino in attesa che Bibi ritorni. “Ti
chiami Elia?” domando.
I suoi occhi sono sul viso spento dell’uomo. E’ come se non
mi avesse sentito.
“Sta bene, non preoccuparti. E’ solo svenuto.”
“Vuoi bere?” chiede Angela dolcemente. “Hai sete? Hai fame?”
Il suo viso è stanco, ma gli occhi sono attenti. La sua
pelle è scottata dal sole, soprattutto sul naso.
“Eccomi,” dice Bibi pochi istanti dopo. “Ho tutto quello che
hai chiesto.”
Dietro di lei ci sono Michael e Terry, con acqua e miele.
Il bambino afferra subito l’acqua, quando Michael gli porge
una bottiglia piccola, e la porta alle labbra con due mani. Beve velocemente,
puntando gli occhi su ognuno di noi.
Si ferma solo quando vede qualcosa alle nostre spalle.
Eloise è ferma sulla soglia della porta, con il pallone fra
le braccia e lo sguardo diretto verso il letto,
sull’uomo disteso.
“E’ morto?” chiede, spaventata. “Mamma, è morto?”
“No,” dice subito Terry, andandole incontro. “E tu non puoi
stare qui. Ti ho detto di rimanere con Anna, quindi-“
“Ma io voglio vedere,” dice, sgusciando dalla sua presa per
avvicinarsi ad Angela. Il pallone le scappa di mano, e lei ci inciampa su,
finendo con le ginocchia sul pavimento.
Michael e Terry si muovono nello stesso momento per aiutarla
a rialzarsi, ma è Elia il più veloce. Prende Eloise per mano e con un gesto
delicato la riporta in piedi.
“Ti sei fatta male?”
La sua voce è calma e chiara. Sicura e determinata. Ha lo
stesso effetto su tutti i presenti: ci paralizza.
Michael ed io ci scambiamo un’occhiata. Il bambino non è
muto. E non c’è nulla di strano in lui.
“No,” dice Eloise. I suoi occhi sono pieni di lacrime,
dettate – quasi certamente – dall’imbarazzo.
“Portala via,” ordina Terry ad Angela. “Subito.”
“No,” ripete la bambina. “Voglio restare qui, voglio vedere
cosa fate.”
Il viso di Terry diventa rosso di rabbia. “Eloise, ti ho
detto che-“
“Andiamo a giocare?”
La voce del bambino è nuovamente sicura e piena di
determinazione.
“Vuoi giocare col pallone?” gli chiede Michael.
Elia indica Eloise. “Io e lei. Fuori. Lontano da qui.”
“Ok. D’accordo.”
Michael si gira per guardare Terry.
“Va bene,” dice lei. “Ma devi tenerli d’occhio. Anche tu,”
dice alla primogenita. “Vai con tua sorella.”
“Andate,” dico al resto dei presenti. “Lasciatemi lavorare
in silenzio.” Poi guardo i due piccoli, e gli sorrido. “Non colpite i vetri, mi
raccomando.”
Eloise arrossisce. Elia rimane immobile.
Quando la porta della camera da letto si chiude, apro i
pantaloni dell’uomo tagliandoli con le forbici, e inizio a pulire la ferita con
un pezzo di stoffa immerso nell’acqua calda.
E’ allora che l’uomo apre gli occhi. Si mette a sedere
rapidamente, spaventato.
“Sto cercando di medicare il taglio,” gli dico. “Sei a casa
mia. Sono passati dieci minuti da quando Michael vi ha portati qui. Va tutto
bene. Respira.”
“Il bambino,” è tutto ciò che dice, guardandosi attorno.
“Sta bene. E’ fuori. Sta giocando con il pallone.”
“Che cosa hai fatto con…”
Non termina la frase, ma indica i pantaloni ridotti a
brandelli.
“Quello che faccio di solito quando vedo un uomo. Lo sistemo
su un letto e gli porto via i pantaloni.”
La mia battuta è inutile e fuori luogo. Non a caso lui
rimane in silenzio.
“Hai perso i sensi, e i pantaloni sono sporchi,” ricomincio.
“Se li avessi sbottonati e tirati giù avrei rischiato di sporcare la ferita.
Ora devo disinfettarla,” aggiungo, sollevando la ciotola col composto a base di
aglio e limone.
“Posso farlo io.”
Faccio cadere la pezza sporca di sangue nell’acqua calda e
gli lancio un’occhiata. E’ disidratato e sfinito. Probabilmente affamato. Con
la mano libera gli passo la bottiglia d’acqua aperta, la stessa usata da Elia.
“Bevi,” ordino.
Lui non se lo fa ripetere. Si lascia andare sul letto, e
beve così, disteso, fino a quando la bottiglia è vuota. Gliene passo un’altra,
e lo osservo mentre la finisce con gusto.
Mescolo il composto con calma e, quando anche la seconda
bottiglia è vuota, gli passo il barattolo di vetro. “Miele. Mangia.”
“No,” dice, sollevandosi sui gomiti. “Posso farlo io,”
ripete, indicando la ciotola. “Posso spalmare…”
Cerca di mettersi seduto, ma non ci riesce. E’ talmente
debole che per un attimo temo che possa svenire di nuovo.
“La testardaggine non aiuta a guarire,” dico mentre mi inginocchio
per osservare la ferita. “Brucerà,” aggiungo, prendendo un po’ di crema con la
spatola.
Lui respira, osserva il soffitto con gli occhi spalancati, e
tace.
“Fate parte di un gruppo?” chiedo, applicando lentamente il
composto.
Lui scuote il capo.
“Da dove venite?”
“Latina. Firenze. Pavia.”
“Pavia? Sul serio?”
Come hanno fatto a sopravvivere lontano dal mare?
“Il bambino è tuo figlio?”
“No,” dice, scuotendo il capo.
“Michael – il ragazzo che vi ha portati qui – pensa che ci
sia qualcosa di strano in lui. I suoi genitori non-“
“Ehi, dobbiamo parlare per forza? Devi per forza farmi l’interrogatorio?”
sbotta, muovendo un braccio. “E’ necessario?”
Appoggio la ciotola sul pavimento. Mi alzo in piedi. “No,”
dico, guardandolo negli occhi. “Non è necessario; e no, non dobbiamo parlare
per forza. Ma che tu ci creda o meno, qui a Pontenero la nostra vita sociale è estremamente
limitata. Non abbiamo tanti turisti, sai? Non offriamo spesso soccorso a chi è
talmente debole da non riuscire a reggersi in piedi. L’ultima volta che abbiamo
visto qualcuno è stato un anno fa. Non devo per forza farti l’interrogatorio,
ma voglio farlo. Perché è raro che
veda una faccia nuova, e quando capita intendo comportarmi come si faceva una
volta: chiacchierare, fare conoscenza. Non è necessario, e non sei obbligato a
rispondere, ma io continuerò a parlare.”
Torno sul pavimento, fingendomi concentrata sul composto e
sulla ferita. In realtà posso sentire il suo sguardo su di me, e posso avvertire
il suo senso di colpa correre nella stanza.
Mi sto occupando della sua ferita; il minimo che può fare,
in cambio, è rispondere a qualche domanda.
“Michael cercherà di farvi restare,” dico dopo un lungo
momento di silenzio.
Dopo aver spalmato il composto, pulisco i contorni della
ferita con delicatezza.
“E se non volessimo restare?” chiede.
E’ ancora debole, ma nella sua voce c’è una punta di forza,
probabilmente dettata dall’orgoglio.
Lui ed Elia sono sopravvissuti fino ad oggi per puro
miracolo. Ce l’hanno fatta da soli, e posso comprendere che le nostre
attenzioni sembrino sospette. Al posto suo, lascerei che la mia gamba marcisse
invece che permettere a qualcuno di occuparsi di me.
Non li conosciamo, non sappiamo nulla di loro.
“Come ti chiami?”
“Mister,” risponde.
Ora riesce a stare sui gomiti. L’acqua deve avergli dato un
po’ di forza.
“Mister…?”
“Mister.”
I suoi occhi sembrano divertiti.
Gli sorrido, e le sue labbra si allargano lentamente.
“Perché dovreste andare via, Mister?” chiedo, mettendo da
parte gli stracci sporchi che aveva al posto dei pantaloni. “Un tetto sulla
testa per te e per il bambino ti sembra una cattiva idea?”
Invece di rispondere, si mette seduto lentamente.
Resto ferma, ad aspettare che faccia qualcosa e, al tempo
stesso, pronta ad intervenire qualora dovesse accasciarsi o svenire.
Il suo sguardo è quello di chi ha smesso di nutrire anche
l’anima, non solo lo stomaco.
All’improvviso non sento solo il bisogno di offrire a lui e
ad Elia un tetto. Sento anche la voglia di curarli entrambi. Dentro. Di fare in
modo che il piccolo parli e sia socievole come Eloise. E di fare in modo che
gli occhi di Mister siano tranquilli.
“No,” dice lui. “No.”
Si spinge fino ai piedi del letto e, con i pugni sul
materasso, cerca di sollevarsi.
Appoggio le cose che ho in mano su un mobile e gli vado
accanto.
“Aspetta,” dico sottovoce. “Lascia che ti aiuti.”
Gli cingo le spalle con il braccio sinistro. “Da quanto
tempo non mangiate?”
Lui chiude gli occhi e scuote la testa. “Tre giorni, credo.
Forse quattro. Ma Elia può andare avanti anche una settimana senza cibo. Non so
come fa, ma-“
“Torna seduto,” intervengo, spingendolo sul letto. “Terry ha
portato il miele. E’ ciò che ti serve in questo momento. Avanti.”
“No, no. Devo andare dal bambino, devo-“
“Ehi, Mister! Non essere testardo, ok? Dove pensi di poter
andare? Hai perso sangue, sei debole e non riesci a reggerti in piedi: non devi
dimostrare niente a nessuno, qui. Tantomeno a me. Ti ho visto in mutande mentre
eri privo di sensi: non puoi fare nulla per cancellare un’immagine simile dalla
mia memoria.” Apro il barattolo e glielo sistemo sotto al naso. “Avanti. Non ti
alzerai da questo letto fino a che non l’avrai mangiato tutto.”
Arretro fino a sedermi su una sedia. Accavallo le gambe e
resto a guardarlo.
Mister immerge l’indice nel barattolo, e lo usa come un
cucchiaio. Impiega pochi minuti per raggiungere il fondo.
Quando solleva la testa, il suo viso sembra cambiato.
Diverso.
Mi sorride di nuovo, e stavolta è quasi come se il mio
bisogno fosse stato in parte saziato: è come se fossi riuscita a curarlo
dentro. A dargli un attimo di tranquillità.
“Grazie. Era buonissimo.”
“Mi chiamo Coral,” gli dico. “Se deciderai di rimanere, tu
ed Elia potrete mangiare miele ogni giorno.”
Lui appoggia il barattolo vuoto sul letto e mi guarda.
“Ogni giorno?” domanda.
“A patto che mi aiutiate a smielare,” rispondo, sollevando
le sopracciglia.
“Smielare? Non ho mai smielato in tutta la mia vita.”
“E io non ho mai conosciuto un uomo senza nome. Le prime
volte sono infinite.”
Invece di rispondere, Mister prova a mettersi di nuovo in
piedi.
Ci riesce dopo due tentativi, allungando un braccio verso di
me per farsi aiutare.
Lo sorreggo con facilità, e lo aiuto a compiere i pochi
passi che ci separano dallo specchio. E’ quella la sua destinazione, anche se
non lo dice ad alta voce.
Osserva il suo riflesso per un lungo momento.
Alla fine si gira verso di me e dice: “Mi serviranno dei
pantaloni.”
“Sono certa di averne almeno un paio,” ribatto con un
sorriso.
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© 2014 Alessia Esse
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RispondiEliminaAdoroooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!
Che teneri ^_^
RispondiEliminaChe cariniiiii *-*
RispondiEliminaAlla fine dovrai pubblicare un cartaceo con tutti gli extra e le novelle :P hahaha